A SHORT APNEA: storia e discografia
Gli A Short Apnea nascono alla fine degli anni novanta come progetto parallelo a due gruppi del nuovo rock italiano, i ben noti Afterhours e i più alternativi Six Minute War Madness.
Infatti due dei fondatori, Xavier Iriondo e Paolo Cantù, avevano militato insieme negli Afterhours prima che il secondo lasciasse il gruppo per costituire i Six Minute War Madness, con i quali il primo, pur restando negli Afterhours, collaborava. Il terzo polo del gruppo, Fabio Magistrali, aveva invece un passato nei Weimar Gesang e aveva poi avviato una carriera da ingegnere del suono.
Ricorderà anni dopo Iriondo: “Il progetto ASA è nato durante il lavoro in studio con gli Afterhours e i Six Minute War Madness; è maturata tra noi l’esigenza di concretizzare quegli stimoli, quelle idee e quegli interessi musicali che avevamo in comune” (2)
E’ probabile che l’esigenza di costituire un gruppo parallelo sia stata avvertita dai nostri quando hanno avuto la sensazione che la proposta musicale dei rispettivi gruppi, ormai ben definita, non consentisse loro di coltivare forme espressive diverse; il bisogno di riguadagnare la propria libertà di esplorazione, senza le costrizioni derivanti dalla propria storia, traspare sin dalla scelta del nome, come spiega Paolo Cantù: “Abbiamo scelto il nome perché cercavamo qualcosa che potesse rendere il più possibile il significato e la natura del progetto e la parola apnea era quella più indicata. Immaginati delle brevi apnee per scoprire delle cose che in altro modo non avresti la possibilità di conoscere.” (3).
Secondo Iriondo “In principio non c’era l’intenzione di pubblicare alcunchè ed eravamo spinti soltanto dalla voglia e dalla curiosità di vedere cosa saremmo riusciti a combinare assieme: d’altra parte, sin dai primi assemblaggi casalinghi, ci siamo convinti sempre più delle nostre potenzialità e man mano si è insinuato il desiderio di uscire allo scoperto” (2); in realtà l’approdo alla pubblicazione di un disco è stato piuttosto rapido: già nel 1999 viene dato alle stampe il primo lavoro omonimo, ad opera della Beware! di John Vignola.
Il contenuto è spiazzante: in sostanza, gli ASA producono diverse sequenze di suoni, talvolta più classicamente rock, talaltra rumoristici, più spesso indefinibili atmosfere sonore, e poi riassemblano questi inserti sino a formare un brano, che, imprevedibilmente, acquista un suo senso ed una sua propria individualità, del tutto scissa dai singoli spezzoni che lo compongono.
Federico Guglielmi, che suggerì di classificare il disco tra i prodotti del filone psichedelico (ah! le etichette…), scrisse: “…hanno elaborato una formula mesmerica, eterea e vagamente stralunata, che con le sue soluzioni per lo più strumentali proietta in un universo dove i rarefatti intrecci di trame acustiche, elettroniche ed elettriche, frutto di un approccio sperimentale di tipo improvvisativo, si rivelano quanto mai prodighi di forti suggestioni. (…) Un lavoro forse un po’ ermetico ma di sicuro non ostico, che sa avvincere e conquistare non solo con il suo incedere fluidamente torpido, ma anche con l’evocatività delle pause e dei silenzi.” (1)
Gianluca Polverari, sempre sul Mucchio, affermò: “Gli A Short Apnea hanno realizzato un CD per la Beware! dove si esplorano, con un magma elettrico distorto e dilatato, le nuove frontiere dell’improvvisazione in ambito noise, riprendendo talvolta anche idee dei primissimi Gastr Del Sol di David Grubbs e Jim O’Rourke; indubbiamente un bel disco, nel quale l’ascoltatore viene invitato quasi istintivamente a porre un attenzione particolare nella percezione dei suoni e nella loro evoluzione.” (4)
In un’intervista dell’epoca gli ASA preferivano sottolineare come, coerentemente con la propria genesi, nel concepire il disco non si fossero posti limiti di alcun genere e fossero anzi rimasti ben aperti a sollecitazioni provenienti da collaborazioni con altri artisti: “Gran parte degli spunti e delle intuizioni raccolte nel cd provengono in realtà proprio dalle registrazioni di alcune session tenute in passato con altre formazioni. La differenza è che in questo caso preferiamo ignorare quei confini compositivi che talvolta caratterizzano le altre band. Proprio la volontà di non porci dei limiti ci porta ad essere in continuo movimento, in perenne ricerca: questa è la principale peculiarità di A Short Apnea.” (2)
L’approccio del gruppo alla musica sembra avvicinarli più al mondo dell’arte moderna e contemporanea che al panorama musicale cui siamo abituati; la loro concezione della musica come materiale sonoro da plasmare, smontare e riassemblare ha parecchi punti di contatto con l’operato di artisti che hanno introdotto nella pittura l’uso di materiali non ortodossi (dalle combustioni di Burri fino ai quadri collage di Kiefer, gli esempi sono innumerevoli) ed anche i loro concerti dal vivo spesso appaiono legati al concetto di performance. “Sul palco ci rifacciamo in modo libero al materiale del disco, sia reinterpretandone semplicemente i brani, sia integrandoli con nuovi spunti ed episodi, spesso frutto di pura ispirazione; tali esperimenti potrebbero anche costituire le basi su cui improntare un prossimo eventuale lavoro.” (2)
Chi abbia colto questa inclinazione degli A Short Apnea non resterà sorpreso nell’apprendere che nel 1999, tra le altre cose, presero parte alla video-performance R.EV., nell’ambito della quale improvvisavano una colonna sonora per i disegni realizzati in diretta e proiettati su grande schermo dall’artista Maria Mesch.
Inoltre, nello stesso periodo, compaiono con il brano “Heat In June” in una compilation dedicata alla scena indipendente italiana (la raccolta contiene anche brani degli One Dimensional Man e degli Starfuckers, oltre ad un pezzo dei Six Minute War Madness) intitolata “Tracce” e pubblicata dalla Wallace Records, etichetta con la quale, di lì a poco, si accaseranno.
Nell’ottobre di quell’intenso anno di fine millennio gli A Short Apnea trovano anche il tempo di suonare come spalla della formazione americana U.S. Maple al Brancaleone di Roma; nel riferirne il Mucchio Selvaggio nota che “la band lombarda ha spiazzato chi già la conosceva, poiché il suo set è stato di una furia devastante, assai diverso rispetto all’album. Anche qui regnava la sperimentazione sulle chitarre e sui loro vari effetti, rumore puro che spesso è esploso in fragorose accelerazioni che sono l’esatto contrario di ciò che è presente sul cd”. Il cronista registra le espressioni smarrite di molti spettatori, ma infine trova motivo di soddisfazione nel fatto che “nessuno se ne sia andato”. (4)
Nell’autunno del 2000 esce il loro secondo album, Illu Ogod Ellat Rhagedia, titolo del quale dice Magistrali: “L’idea non è stata nostra: abbiamo sollecitato un amico, Luca Vitali, che ha proposto un cut-up di nostre chiacchierate riguardanti l’album a cui ha applicato questa frammentazione sillabica, perfettamente analoga a quello che abbiamo fatto con gli strumenti. Anche la nostra musica va decodificata: trovate le chiavi di lettura, può diventare spontanea e fruibile come un brano rock classico.” (7)
La confezione è dominata dal nero, con una piccola immagine nell’angolo che accosta una tastiera a delle gigantesche ruote dentate, perfetta sintesi della attitudine musical-rumoristica degli ASA. All’interno tre fotografie choccanti, con i tre componenti della band riversi nel bagagliaio di una R4, fedele riproduzione di un’immagine entrata nella memoria nazionale come l’ultima foto di Aldo Moro, il cui cadavere fu ritrovato proprio nel bagagliaio di una macchina di quel modello dietro Via delle Botteghe Oscure.
Una provocazione di dubbio gusto che viene spiegata dagli ASA in modo non troppo convincente: “Per quest’album fin dall’inizio cercavamo delle immagini forti e scure come la musica, che ci dava un senso di apertura ma anche di grande cupezza e dolore. Facendo noi stessi le foto volevamo dare un senso compiuto a questo disco, mentre nel primo – nato quasi per caso – questo aspetto era marginale” (7)
Nonostante la discutibile scelta delle foto, questo è, a mio parere, il loro miglior lavoro: bello, imprevedibile, a tratti piuttosto angoscioso, ma se ascoltato senza pregiudizi e, soprattutto, con tempo e attenzione (non è certo il tipo di musica che si può tenere in sottofondo mentre si attende ad altre occupazioni) risulta affascinante. Nel disco non ci sono campionamenti, ma assemblaggio di registrazioni talvolta effettuate a grande distanza di tempo: “Ci sono due binari all’apparenza contrastanti, l’unitarietà spazio-temporale di un trio che improvvisa, creando un evento unico e imprevedibile, ed eventi distantissimi, a volte raccolti non razionalmenta ma emotivamente, spesso cercando la contraddizione.” (Iriondo – 7)
Il CD viene recensito con grande rispetto da Davide Poliani: “Un prodotto musicale frutto di un intenso lavoro sui canoni più frequentati della musica contemporanea. L’improvvisazione e il rapporto con la strumentazione classica, innanzitutto, si rifà alle ultime uscite statunitensi, senza però quella patina di maniera che, a macchia d’olio, sta coprendo molti lavori provenienti d’oltreoceano. (…) Molto suggestivi sono anche gli inserti rumoristici, elettronici e non, che affiorano qua e là (…), l’inserimento di preludi ipnotici e astratti prima di esplosioni strumentali dalla cadenza più riconoscibile valorizza le sfumature tra sonorità e strumenti che – a parer mio – sono il punto di forza degli A Short Apnea” (5)
Uguale sentimento si percepisce dalla recensione di Stefano Rocco sul sito Rockit: “Gli A Short Apnea sono molto piu' che un semplice neurone impazzito distaccatosi dagli Afterhours, si muovono con un'anima che stride con qualsiasi forma canzone, distorcendo i tentativi della melodia di insinuarsi tra le pieghe dei suoni. Il lettore riporta tre tracce, ma in realta' si tratta di tre tempi, ognuno dei quali e' diviso in frammenti emotivi che formano una scenografia frastagliata e ansimante. E' un rumore caldo e avvolgente, fatto di scaglie di oblio e carezze soffici, animate da apparente delirio ma in realta' strutturate con precisione. (…) Sperimentazione pura, votata a una liberta' compositiva che sfiora il freejazz, senza evitare qualche sfumatura post-rock... la morte della banalita', la fine della clonazione... forse sono anni avanti, forse sono dei ciarlatani, resta il fatto che questa musica e' tutta loro! Non serve a nulla dire se mi piace, gli A Short Apnea dovete averli dentro per capirli, altrimenti Illu ogod ellat rhagedia (Ustrainhustri) e' spazzatura.” (6)
Una curiosità: alla fine della seconda traccia si sente una voce. Appartiene al santone riconosciuto della musica d’avanguardia, già leader dei Soft Machine, Robert Wyatt.
Dopo il disco era prevista una tournée che avrebbe coinvolto anche la Croazia, dove i loro dischi erano distribuiti. Avrebbero voluto trovare degli spazi di distribuzione all’estero e a questo fine avevano contattato un’etichetta chiamata Collapse (Village of Savoonga) ma non se ne era fatto niente.
In effetti, nonostante Illu Ogod Ellat Rhagedia guadagni definitivamente agli A Short Apnea una nicchia nella, peraltro non affollatissima, cattedrale della musica d’avanguardia italiana, i tempi restano duri. Non è neanche il caso di parlare di successo commerciale: le vendite di prodotti di questo genere sono sempre e comunque insignificanti. Ma, anche dando per scontato questo aspetto, lo spazio che si può guadagnare una proposta del genere su di un mercato periferico come quello italiano è sempre molto ridotto e agli ASA non manca consapevolezza al riguardo, come traspare dalle parole di Fabio Magistrali: “Cerchiamo di essere realisti, non riteniamo sia possibile viverci e avere una carriera riconosciuta anche professionalmente, e non crediamo che sia facile in mercati come quello americano o inglese. Gli inglesi non si fanno problemi, trasformano subito tutto in pop e vanno tranquillamente in classifica, mungono la musica prima ancora di averla approfondita. Ma è quasi giusto che sia così, è naturale pensare a queste musiche come effimere, la loro estetica è per natura progressiva e mutevole. Gente come Storm & Stress (gruppo USA, ndr) fa da rompighiaccio e poi c’è qualcuno che riesce, con talento, a utilizzarne le intuizioni e applicarle ad una formula più precisa e fruibile, senza necessariamente svilirle.” (7)
Una cosa che colpisce nel leggere le interviste dell’epoca con i componenti degli ASA è l’urgenza di motivare e raccontare le proprie scelte musicali, urgenza che si traduce in una discreta torrenzialità nelle dichiarazioni. E’ sintomatica quest’altra dichiarazione di Magistrali, tratta dalla stessa intervista: “Temiamo di essere considerati un gruppo dall’approccio intellettualistico: essendo in origine dei rockettari ci teniamo a mantenere uno spirito il più possibile fresco e spontaneo. C’è una parte di analisi e di approccio intellettualistico, ma non vorremmo assolutamente che abbia il sopravvento.” (7) La realtà è che proprio l’esigenza di spiegare è la migliore prova che il loro approccio è assolutamente intellettualistico (sia detto senza implicazioni negative: un certo grado di elaborazione intellettuale non è una colpa). E’ evidente che i linguaggi adottati hanno un forte valore simbolico, ma non sono immediati. Scaturiscono da uno studio e da una ricerca che hanno chiara valenza intellettuale, e le ampie didascalie costituite dalle interviste con i protagonisti sono utili chiavi di lettura.
Nella primavera del 2002 vengono dati alle stampe contemporaneamente due nuovi lavori degli ASA: An Indigo Ballad e Five Greeny Stages, accomunati anche dalla identica, essenziale grafica di copertina, che si differenzia solo per il colore (rispettivamente fucsia e verde militare). In diverse interviste avevano anticipato di aver registrato tutti i loro concerti e questi due cd sono il risultato di tali registrazioni.
In particolare, An Indigo Ballad riporta un concerto tenuto a Legnano nell’ottobre 2000; Pasini sul Mucchio ne riferisce come “una lunga e ipnotica progressione di arpeggi di chitarra sferraglianti, bordoni tastieristici, reminiscenze orientali, percussioni elettroniche ed effetti vari, seguita da una trentina di secondi di soli applausi” (8), mentre sul sito Rockit scrive Luca Fusari “"An Indigo Ballad" potrebbe quasi essere una composizione 'd'occasione': il mini, infatti, fotografa - senza sovraincisioni o montaggi - un'esibizione tenuta in una galleria d'arte di Legnano, nell'ottobre del 2000. Esibizione che gioca sulla costruzione di atmosfere apparentemente 'statiche' ma in continua evoluzione, con una strumentazione che si compone di tastiere (organo, piano elettrico), chitarre preparate - di cui si utilizzano più le qualità percussive che quelle armoniche - ed effettistica varia.
Five Greeny Stages invece è assemblato rimixando sonorità provenienti da quattro diverse esibizioni del gruppo, secondo la tecnica richiamata da Magistrali nell’intervista sopra richiamata (2). In proposito scrive Pasini: “Il banco mixer viene usato come uno strumento vero e proprio, e l’esito finale ha ancora una volto poco a che vedere con le sonorità più o meno standardizzate a cui l’ascoltatore medio è abituato. Finchè i risultati sono questi, va bene così.” (8)
Mentre Fusari, mettendolo a confronto con An Indigo Ballad, scrive: “"Five Greeny Stages" vede invece l'impiego di una strumentazione più limitata (solo chitarre e batteria, con interventi occasionali di organo, voci e conchiglia) e l'utilizzo di moduli improvvisativi più concitati e 'selvaggi', quasi a contrastare con la propria varietà ritmica la varietà invece timbrica del 'gemello'” (9)
Come i due album dal vivo dimostrano, l’attività concertistica (ma forse dovremmo dire le performance) è fondamentale per il gruppo, spesso in termini espressivi che travalicano la mera dimensione sonora. Ad esempio, nel corso di un concerto parte del festival “Musica nelle Valli” trovano ancora il modo di stupire il pubblico proponendo alcuni minuti di silenzio assoluto. Dirà, in proposito Fabio Magistrali: “Senza pensare di proporre chissà quale estremismo, quella era una cosa in linea coi nostri obiettivi di 'ridiscussione' delle cose. Il momento 'muto', 'silenziato', era l'intenzione di mettere in discussione (nella sua consistenza uditiva quanto nell'aspetto di impatto scenografico e visivo) il concerto quasi all'inizio, appena lasciato intuire per quello che sarebbe stato. Ma come dicevo, senza teorizzare troppo, è un'idea assolutamente consequenziale alle cose che facciamo: a furia di giocare con le interruzioni e le basse dinamiche prima o poi si arriva al 'minimo', a fermare il suono per lasciare solo l'immagine.” (10)
E non costituisce quindi motivo di sorprsa che l’ultimo lavoro – per ora – degli A Short Apnea sia ancora una volta un album dal vivo, edito nel 2004 dalla Wallace ed intitolato “Just Arrived”, resa discografica di varie session risalenti addirittura a tre anni prima tra gli ASA e gli americani Gorge Trio. Come loro costume, gli ASA hanno abbondantemente manipolato il materiale sonoro scaturito dalle session per ricavarne una serie di frammenti che vivono di vita propria.
Difficile dire se la parabola artistica debba ritenersi conclusa con questo lavoro; per sua natura, la musica degli ASA non è soggetta a grave invecchiamento. In qualsiasi momento potremmo aspettarci che, soffiata via la polvere dagli strumenti, il gruppo torni a formulare proposte musicali impegnative e sfidanti, mai banali. Ce ne sarebbe bisogno.
ROBERTO CAPPELLI
BIBLIOGRAFIA:
(1)cRecensione A Short Apnea di Federico Guglielmi su Mucchio Selvaggio no. 341 del 2 marzo 1999;
(2) A Short Apnea, intervista di Fabio Massimo Arati su Mucchio Selvaggio no. 354 del 1 giugno 1999;
(3) A Short Apnea, di Ailén Gamberoni su Speciale Rock Sound no. 2 del settembre 1999;
(4) Recensione concerto al Brancaleone di Roma di Gianluca Polverari su Mucchio Selvaggio no. 376 del 7 dicembre 1999;
(5) Recensione Illu Ogod Ellat Rhagedia di Davide Poliani su Rock Sound no. 32 del dicembre 2000;
(6) Recensione Illu Ogod Ellat Rhagedia di Stefano Rocco su Rockit, 15 dicembre 2000 (http://www.rockit.it/album/988/a-short-apnea-illu-ogod-ellat-rhagedia-ustrainhustri);
(7) A Short Apnea, intervista di Alessandro Besselva su Mucchio Selvaggio no. 424 del 9 gennaio 2001;
(8) Recensioni di An Indigo Ballad e Five Greeny Stages di Aurelio Pasini su Mucchio Selvaggio no. 484 del 30 aprile 2002;
(9) Recensioni di An Indigo Ballad e Five Greeny Stages di Luca Fusari, su Rockit, 4 giugno 2002 (http://www.rockit.it/album/1956/a-short-apnea-an-indigo-ballad-fine-greeny-stages)
(10) A Short Apnea, intervista di Luca Fusari, su Rockit, 15 luglio 2002 (http://www.rockit.it/intervista/263/a-short-apnea-milano)